"UVASPINA" DI MONICA ACITO IN USCITA IN LIBRERIA

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L’amore fraterno, l’amore-passione, la fatica di trovare il proprio posto nel mondo. Sullo sfondo una Napoli mutevole. Un debutto vivido e trascinante.

I diritti cinematografici di Uvaspina sono stati opzionati da Indiana Production.

 Una voglia sotto l’occhio sinistro, scura come un acino maturo incastonato nella pelle chiarissima: è nato così, Uvaspina, tanto che si è abituato presto a essere chiamato con quel nome che lo identifica con la sua macchia.

A quasi tutto Uvaspina è capace di abituarsi: al notaio Pasquale Riccio, suo padre, che torna a casa solo per i pasti e si vergogna di lui; alla Spaiata, sua madre, che dopo aver incastrato Pasquale Riccio con le sue arti di chiagnazzara non si dà pace di aver perduto il proprio fascino e finge di morire ogni volta che lui esce di casa. Ma soprattutto Uvaspina è abituato a sua sorella Minuccia, di poco più piccola. Fin da bambina, Minuccia è abitata da un’energia capace di esplosioni imprevedibili, che proprio su Uvaspina misurano il proprio potere: Minuccia tiene in scacco il fratello con la sua forza fisica, con le sue ripicche crudeli, con l’acume di chi sa colpire nel punto di massima fragilità, come quando gli dice: “Avevano ragione i compagni tuoi, sei veramente un femminiello”.

Eppure solo Uvaspina conosce l’innesco profondo che rende la sorella uno strummolo, una trottola capace di ferire con la sua punta di metallo vorticante. E solo Minuccia intuisce i sogni di Uvaspina, quando lo strummolo la tiene sveglia e può scrutare i suoi finissimi lineamenti nel sonno.

Intorno a loro, Napoli: la città dalle viscere ribollenti, dai quartieri protesi verso il cielo, dai lunghi tentacoli immersi in quel mare che la fronteggia e la penetra, fin dentro le grotte del Palazzo Donn’Anna. È proprio su questo confine tra la città e il mare, tra la storia e il mito, che Uvaspina incontra Antonio, il pescatore dagli occhi di due colori diversi, che legge libri e non ha paura del sangue, che sa navigare fino a Procida e rimettere al mondo un criaturo che dubitava di sé stesso. La purezza del loro incontro, però, non potrà nascondersi a lungo nelle grotte di Palazzo Donn’Anna: la città li attira a sé, lo strummolo gira e il suo laccio unirà per sempre i loro destini.

 MONICA ACITO

È nata nel 1993. È cresciuta in Cilento, tra le gole del Calore e i templi di Paestum. Ha iniziato a scrivere da bambina, e fin dall’adolescenza ha collaborato con testate cartacee e online. Dopo la maturità classica si è trasferita nel centro storico di Napoli, tra Forcella e Mezzocannone, e si è specializzata in Filologia Moderna presso l’Università Federico II. Nel 2019 è approdata a Torino, dove ha frequentato la Scuola Holden. Nel 2021 ha vinto, tra gli altri, il Premio Calvino per la narrativa breve e i suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste letterarie. È docente di discipline umanistiche presso la scuola secondaria di primo e secondo grado.

 Uvaspina aveva tredici anni quando capì che sua sorella era uno strummolo. Tutto in Minuccia era movimento e rotazione, come un giocattolo di legno: quando gli occhi di Minuccia diventavano opachi come la polvere del vico Belledonne, allora Uvaspina capiva che lo strummolo si era incantato. Quando Minuccia si inceppava non bastava tirare lo spago o la cordicella perché lei iniziava a girare all’impazzata, e nella sua traiettoria diventava un asso pigliatutto, faceva il gioco della scopa d’assi e della smorfia. Tutto si pigliava, Minuccia bella: i quadri e i cuori, le coppe e i bastoni, le ciglia nere del fratello e il doppio mento della Spaiata.

 Quando lo strummolo s’inceppava, si metteva a piroettare fino a non toccare più il terreno: si alzava da terra come un aereo di carta, come le lingue di fuoco dei quadri della Pentecoste, che salgono al cielo risucchiate dalla luce del Padreterno. Tutti pensavano che anche Minuccia fosse risucchiata da qualcosa, ma Uvaspina lo sapeva che invece la sorella era aspirata dalla sua stessa forza centripeta, dalla spinta della trottola che girava, girava e poi a un certo punto ascendeva al cielo. Minuccia a terra non ci sapeva stare e ogni cosa, intorno a lei, perdeva la facoltà di starsene piantata al suolo e non conosceva più gambe, fondamenta, radici. E forse anche la Chiesa dell’Ascensione si chiamava così perché aveva la freva di volersene salire in cielo, insieme a tutto lo stesso quartiere di Chiaia.

Quel quartiere era una bomboniera che tutti volevano mettere in soggiorno, insieme alle maioliche di Positano, ma Chiaia non ci sapeva stare ferma su una mensola, perché era una palla di cristallo che aspettava la mano pronta a lanciarla in aria, al di là di Napoli. Chiaia era costruita in verticale, si spingeva in alto e campava sulle punte dei piedi, in mezzo a una città che voleva afferrarla per
il colletto e metterla seduta per terra, nello stesso modo con cui Pasquale Riccio, tanto tempo prima, afferrava la testa della Spaiata e se la portava alla patta dei pantaloni.

Tutto in Chiaia era sforzo verso l’alto, scricchiolio di ginocchia, piante dei piedi sollevate, chiese pronte a librarsi verso il cielo; soltanto là poteva nascere una come Minuccia, perché se fosse nata al vico Scassacocchi non sarebbe stata più una trottola, ma soltanto una scugnizza che al massimo sarebbe rimasta incinta a tredici anni.

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